11 Nov In attesa che prenda vita un nuovo luogo – Dialogo sulla pittura tra Eliana Petrizzi e Massimo Bignardi
M.B. Il ricordo di quando ventenne cercavo di dare un senso alle mie esperienze di pittore, un tempo oramai lontano dal presente, è in gran parte racchiuso nel momento d’incontro con la superficie della tela o del foglio. Non era tanto l’imbattermi con la vastità bianca della superficie, nella quale cadeva il mio sguardo, né la visione panica che seguiva, passo dopo passo, il segno nel suo avanzare nella figura. La difficoltà maggiore era dettata dalla natura di essa; assorbente e quindi asciutta, che permetteva al tatto di registrare l’ordito della trama, il giustapporsi dei fili di lino, il loro annodarsi in piccoli escrescenze, quasi un rigonfiamento di quella carne che di lì a poco avrebbe accolto la pelle della pittura. Oppure liscia con la preparazione a gesso e colla pronta a rispondere al colore, asservito al pennello e alle volontà della mano, e dunque di soccombere al primato della visibilità e celebrarne il suo enigma. Era per me il tempo di un’emozione infinita che allontanava sempre di più l’avvio di una nuova esperienza, di un nuovo viaggio che mi conduceva, gratuitamente come diceva Melotti, in terre mai esplorate. La superficie era parte di un corpo, ultimo strato di una carne che si lascia massaggiare dallo sguardo; ad accogliere, di lì a poco, la mano che nei segni e nei colori ritrova la prova dell’esistenza delle cose nel registro dell’immaginazione. La mano le nominava una ad una: bottiglia, volto, paesaggio, cielo, interno, mischiando oggetti a sensazioni. La pittura è stata e lo è ancora oggi – anche se mi limito a guardare esperienze altrui – un primo incontro, cioè di quando i sensi entrano in sintonia con l’esistente, affidando soprattutto agli occhi e alle mani la capacità di rendere il mondo in immagini. C’è stato un momento in cui ho preteso – perché affascinato dalla pittura dei fiamminghi, in particolare gli oggetti che arredano lo spazio dei “coniugi Arnolfini” di Van Eyck – di piegare maggiormente il colore alla resa estrema della verosimiglianza, alla percezione di un reale plastico e tattile. Insomma, aspirare ad una prospettiva che tendesse ad affermare il tatto, convinto che la mia esistenza fosse “irrimediabilmente singolare e plurale” come chiarisce Augé parlando delle mani. È stato in quel momento che ho smesso di scrutare la superficie della tela, di agitare il colore, di cercare un senso ad un’esperienza oramai esauritasi. È stato allora che ho preferito portare la mia visione del mondo nell’alveolo di una riflessione storico critica, orientando di volta in volta il cannocchiale verso l’infinto paesaggio del passato o il progressivo tradursi del presente in futuro.
E.P. Anch’io sono cresciuta sfogliando le monografie dei pittori fiamminghi e rinascimentali. Durante l’adolescenza, la pittura classica mi aveva insegnato la grammatica della tecnica, insieme ad una visione del mondo positiva. L’uomo ha iniziato a dipingere ancora prima di scrivere, forse perché la forma è l’unica difesa contro l’impotenza di essere al mondo. La forma radica, unisce e consola; per la memoria storica e per la sua cultura simbolica, di tutti e da sempre. In seguito, ho però capito che la pittura è qualcosa di più sottile e complesso; è un’avventura in sé, come tu affermi. Se ad un’indagine superficiale il suo scopo è quello di ritrarre le forme su un supporto bidimensionale – attraverso effetti di verosimiglianza più o meno convincenti – il suo vero scopo è la seduzione dell’inganno. In tutta la storia dell’arte, il realismo pittorico è stato la più ammaliante delle mistificazioni. Così come il personaggio scaccia l’attore, il pittore non dipinge che il vuoto del reale. Facendogli il verso attraverso le forme che lo imitano, lo rende infine, per troppa familiarità, estraneo. È in questo preciso momento che la pittura diventa il luogo in cui non le forme riflesse, ma l’essenza del mondo si fa chiara e s’irradia. Preferisco la verosimiglianza all’iperrealismo; preferisco una figurazione che contenga uno spaesamento impercettibile, una distonia, che solo la mano unita allo spirito dell’uomo possono creare.
M.B. Quest’ultima affermazione mi richiama un capitolo centrale del Vie des Formes di Henri Focillon. È quando scrive delle forme nello spirito e della capacità che esso ha di affermarsi costantemente da sé. Capacità non immune dalla sofferenza che tale riflessione comporta: cioè di far corrispondere non il desiderio dell’azione, osserva Focillon, quanto il grado di esperienza che è l’azione stessa. Recuperando quello che resta di quei ricordi di gioventù, l’azione della pittura e il rito che accompagnava ogni suo tempo si fondavano su uno scambio di binari paralleli. Vale a dire tra la materia pittorica, dunque le forme che la mano traduceva delle mie perlustrazioni del sé, e le immagini che in apnea andavo ad incontrare nelle profondità dello spirito. Ciò originava una gamma di umori che accoglievo con il fiato sospeso. A volte ingrossava la piccola vena di misantropia, che in quei primi anni settanta era cifra proprio di una generazione; altre dilagava in uno pseudo impegno politico. Mai però – contraddicendo quanto sostiene lo storico d’arte francese – disposta a tradursi in lingua, e in uno stile verso cui aspira la coscienza umana.
E.P. Il significato è tutto quanto viene espresso dalla forma. Il concetto ne è invece l’essenza, ciò che di più vasto rimane, perché testimonia l’azione dello spirito, la sua qualità, quella che tu hai indicato come “capacità di descriversi, affermarsi costantemente da sé”. Se la fascinazione della fotografia viene dalla sua capacità di fermare in un attimo irripetibile la durata dell’oggetto ritratto – sottolineandone insieme l’impossibilità – alla pittura spetta il compito di inventare ciò che resta oltre la perdita di quella durata. Se non è capace di generare questa dimensione descriverà certo la vita, ma non ne avrà mai una propria. Il problema della figura dipinta – il suo cedimento principale – è la pretesa di rassicurarci nominando le cose, come se queste potessero regolare i nostri accordi col mondo. Ma le cose sono acqua tra i palmi giunti, e il patto è presto infranto. Meglio allora l’accenno vago in cui passa il racconto di ciò che è stato e di tutto quello che potrebbe essere. La pittura è geografia dell’indicibile: ossessioni, visioni ed immagini ne costituiscono l’essenza più profonda. Una costante ricerca di scioglimento è il mio obiettivo da anni. Preferisco lo sbando e l’abbaglio, più bravi a lasciarmi intravedere un’uscita, nella malinconia tutta umana che un’uscita vera e propria forse non c’è.
Mi è capitato – nei primi anni di una mia esperienza marcatamente figurativa – di uscire dalla rappresentazione per eccesso d’immagini. Si era prodotta in effetti una specie di iconoclastia: fabbricavo forme fino al punto in cui smettevo di vedere. Scopo della pittura è invece quello di far scomparire la realtà, truccando al tempo stesso la sua sparizione: è in questo la sua seduzione più grande. Dietro ogni immagine, qualcosa si perde nell’atto stesso in cui viene fermata. La mia è in fondo una pittura che dell’immagine insegue la nostalgia, lontana dalla compiutezza, che avverto come lo stadio della forma più prossimo alla morte. La perfezione ci priva di fatto del ricordo di ciò che la perfezione avrebbe potuto dirci, se solo fosse stata meno perfetta.
M.B. Sono convinto che nel concetto di ‘pittura geografia dell’indicibile’, tu voglia esprimere il desiderio, avvertito come una pressante necessità (diversamente non avresti iterato inquadrature, tagli, prospettive di paesaggi), di spandere le ordinate del tuo sguardo futuro, cosciente che il mondo del divenire sia un campo da attraversare. Sono convinto che corpi vuoti di tempo che tu fai muovere in luoghi memoriali, possano aprire varchi ad altre suggestioni. Questo, però, non ti vaccina dalle turbolenze che hanno spinto l’uomo del Duemila, verso una retrotopia, come la definisce Bauman. Cioè non ti ripara dalla turbolenza posta come “condizione in cui la maggior parte delle cose può accadere – magari persino tutte le cose immaginabili -, ma per cui nulla può essere fatto con certezza assoluta”. E di seguito mi viene di chiederti, se sei convinta che le immagini siano deterrenti conoscitivi, approcci di un’immaginazione che si spinge oltre l’immagine e che prenda il mondo dell’essere. Non c’è il rischio che, una pittura così capziosa degli effetti percettivi, non possa leggersi come un dietrofront, ossia un cammino a ritroso palesandosi, come di frequenza scorgiamo oggi nella scena dell’arte e non solo? Tenere puntati gli occhi sul retrovisore potrebbe trasformare l’esperienza attuale in “un itinerario – richiamando in causa Bauman – di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente”.
E.P. Occorrono delle immagini per costruire un mondo e per riscriverne la storia. Ma l’immaginazione, più dello sguardo, è indispensabile ad organizzare il visibile in nessi di senso. Nelle mie opere, l’immagine è il calco del corpo rimasto nel vuoto di una giacca appesa. Un pittore soffre la fatica delle forme e quella delle cose che le forme designano. Arriva però un punto in cui le cose raccolgono il visibile in un abbraccio in cui tutto diventa finalmente qualcos’altro.
M.B. Cos’è per te, voglio dire per la pittrice, quel “qualcos’altro? Nella esperienza che la critica mette in campo, o almeno lo è per me, l’analisi dell’insieme, vale a dire dell’immagine e con essa le materie che la sostengono e la realizzano, diviene motivo dell’incontro con l’altro, approccio all’universo X. È vero che, come sosteneva Denis, un dipinto è prima di tutto una superficie piatta sulla quale forme colorate si giustappongono secondo un certo ordine; è vero anche – Denis lo dava per scontato perché aspirava, attraverso la Fede, alla “beauté harmonieuse”- che l’incontro avviene in una condizione, oserei dire, di empatia, proprio di chi cerca l’emotività dell’incontro. Quel “qualcos’altro” assume, quindi, il valore di scoperta del sé e, ti sembrerà paradossale, del fallimento della mia esperienza di pittore. Rivedendo le tue opere, penso che “qualcos’altro” dia risposta all’alternarsi di alcuni temi, centrali alla tua pittura. Più che allo scafandro formale, l’attenzione è alla loro genesi, improntata da una reiterazione, una vera e propria coazione a ripetere di memoria freudiana, dunque turbolenze dell’inconscio.
E.P. Dovendo individuare dei significanti nella mia pittura, potrei sceglierne due: il volto umano e il paesaggio naturale. Osservando una serie di immagini di volti tratti dalla statuaria antica e dalla pittura rinascimentale, rifletto da sempre sul tema del viso. I puntelli ideologici sull’argomento funzionano solo se il volto è in odore di crollo. Ma se il volto è bellezza ideale, l’immagine si redime sempre dal corpo. In uno stadio estraneo al decadimento e all’eros carnale, il volto si fa panacea, amor mundi, spiritualità e trascendenza della forma, in un perfetto stato di grazia. Se il corpo è dimora inagibile e maceria da cui evacuare, nei miei dipinti il volto è un aquilone che si slega dal palo, a ricordare una parte spirituale inattaccabile dalla mediocrità e dall’abbandono, pur recando lo stigma della lacerazione congenita all’essere al mondo.
M.B. Nelle pratiche del narcisismo quotidiano, il volto ha preso il sopravvento grazie al selfie, proclamato, nel 2013 dall’ Oxford Dictionary, parola dell’anno. Lo ricordava tempo fa Ferdinando Scianna in Lo specchio vuoto. È, in sostanza, piegare la capacità della fotografia su una visione alterata del nostro rapporto con l’altro, e per esso intendo anche il luogo che ci accoglie. Capacità della fotografia che sono ben altre e che ci hanno educato, da quasi due secoli a molteplici visioni del reale. La fotografia è una tua compagna; lo è maggiormente in questo ultimo decennio, nella dialettica che il tuo esercizio pittorico intrattiene con l’immagine, chiamando in causa la tua identità.
E.P. È vero: per tutta la vita la fotografia mi è stata compagna fedele, modello fondamentale nella generazione di immagini da trasfigurare. La fotografia è nel mio caso schizzo, canovaccio per il ricamo che verrà. Considerata come linguaggio autonomo, non ho mai pensato alla fotografia come presa diretta del reale. L’immagine catturata, nel momento stesso in cui viene fermata dalla macchina è già evidentemente qualcos’altro; direi anzi che lo è ancora prima, nel momento in cui viene inquadrata dall’occhio di chi scatta. L’immagine fotografica è apnea metafisica e irrealtà della memoria, perché nessun linguaggio potrà mai dire né fermare il flusso di ciò che esiste, come pure la fotografia pretenderebbe di fare. Perciò – e in questo la fotografia è amica della pittura – è un genere di artificio che nel fare il verso al visibile crea infine una lingua diversa, indipendente dal modello di partenza.
M.B. La fotografia testimonia di una ferita che torna più volte come tema dei tuoi dipinti dei primi di questo decennio. Non parlo di una fotografia che risponde alle necessità della cronaca, dei reportage di guerra da quali affiora l’umanità spersa nel crimine, nell’omicidio categoriale, ovvero nell’apoteosi dell’olocausto che il Novecento ci ha fatto toccare con mano. Penso invece ad un autoscatto, ove il sé legge in trasparenza, al di là della garza che la ricopre, la consapevolezza della transitorietà della nostra esistenza. Transitorietà che la pittura e in generale l’arte celebra nell’eternità dell’immagine.
E.P. La ferita che compare nei miei volti dipinti è una vanitas. Nelle nature morte barocche sono sempre rimasta affascinata da forme che, pure se colte in un momento di rigoglio, erano di fatto il ritratto di un cadavere truccato nella bara aperta. Mi colpivano in particolar modo i pochi dettagli che lasciavano intendere cosa stavo guardando esattamente: la mela bacata, il bruco morto accanto al vaso, la foglia secca caduta da un ramo, il bordo marcio che orlava un petalo. Mi è parso chiaro da subito che ogni evocazione della bellezza reca di fatto una tara. Penso sempre che dopo il corpo, l’anima andrà in luoghi che non la vedranno più né ospite né padrona. Eppure forse ricorderà quanto era meraviglioso il mondo, e vasta nella sua breve misura la vita. Rimpiangerà il suo essersi incontrata nella carne, senza piacersi che un poco, a volte e per poco. Ecco, la ferita dice questo. A volte dipinta – mimata attraverso l’inganno della pittura – assume un aspetto apotropaico. Altre volte, il supporto su cui dipingo contiene già la falla (si tratta in genere di materiali di risulta), che mi indica cosa e dove intervenire, insegnandomi che solo dall’inciampo è possibile immaginare una forma di riscatto e di trascendenza. Per il resto, ed è inutile girarci intorno, nei miei dipinti parlo soprattutto di me. Ogni artista non si occupa che di se stesso; ogni sua opera non è che un tentativo di sbarazzarsi di sé, dei suoi aspetti migliori come dei più esecrabili. Che poi questo svuotamento possa essere utile a qualcun altro è un effetto collaterale, a volte addirittura imprevisto. Dovremmo chiederci tutti perché si crea, perché si cerca ascolto: è per la paura di scomparire, per la gioia breve di aver spostato il silenzio un poco più in là.
M.B. Il gesto creativo richiede l’assoluta e totale disponibilità a denudarsi. Avvertire, cioè, solo la gravità del proprio corpo che transita, nella luce della vita, da un buio all’altro. La prerogativa di creare, dunque di concretare il progetto, insomma l’idea, spinge l’uomo e non solo l’artista, al confronto diretto con l’altro, con gli altri. La creazione, che amo indicare come esperienza artistica, la intendo priva di ogni schematismo mentale: una libertà senza precedenti, senza trattative, che consente di spaziare in quell’insieme di ‘significabilità’, così come il pensiero heideggeriano definisce il mondo. In pittura il gesto si rende palese sulla superficie, lo è paradossalmente anche quando per pittura ci riferiamo ad aspetti della video arte.
E.P. La superficie dei miei dipinti è un terreno sensibile che accoglie e proietta, è geografia su cui prendono forma vite parallele, rivelate a chi guarda. Ho affrontato la superficie in modo diverso nel corso degli anni. Ho iniziato dipingendo su tele di un cotone molto sottile, preparate a tecnica fiamminga, su cui la pittura ad olio a velature finiva per creare effetti iperrealisti, smentiti solo dall’impianto surreale delle mie visioni di allora. In seguito, stanca di questo eccesso di verosimiglianza, ho fatto in modo che il supporto accogliesse materie a corpo in grado di tracciare rilievi, ottenute impastando gesso con argilla, ceneri vegetali, polveri minerali e colle animali; una specie di paesaggi visti da un satellite, fatti di solchi, asperità e crepe. In effetti, era quello un primo tentativo di raccontare la vanitas dell’immagine, ponendo da un lato la materia greve, metafora della carne, dall’altro l’icona siderale di una bellezza estranea alle avarie del corpo. Nel 2006, sono arrivata in modo naturale all’idea della vanitas dipinta. Il mio segno ricorda, è vero, il taglio di Fontana, ma non nasce da lì; viene dalle pieghe dei drappeggi fiamminghi, da quel senso perpetuo di accartocciamento della materia, che in quegli artisti veniva reso così magistralmente. La mia ferita è amica dell’inganno, racconto pittorico di tutte le nostre illusioni attraverso l’illusione suprema: quella di disconoscere o di allontanare dalle nostre vite proprio la ferita. Non si tratta solo di un discorso intorno alla morte come scomparsa del corpo, ma delle differenti declinazioni che della morte incontriamo ogni giorno da vivi: l’esistenza che non abbiamo saputo scegliere, l’amore spento, la paura che toglie la speranza.
M.B. Qual è il colore della morte nella tua tavolozza? Il nero – quello che comunemente le attribuiamo e che, almeno per un lungo periodo, ha fatto da sfondo alle tue figure, ai tuoi volti – ha poco in comune con lo spegnersi della vita. Alla pari del rosso dei tuoi interni, del verde dei paesaggi che nei punti di maggiore saturazione lascia aloni di muffe, il nero è un colore luminoso: è uno spazio abissale costruito da velature ora azzurrate, tali da improntare i corpi di aure oniriche, ora rosse, con passaggi liquidi di ambra o di un riflesso purpureo che caricano la carne di vita, di passione, di lotta.
E.P. Nei primi anni della mia ricerca, ho realizzato dipinti che utilizzavano l’intera gamma dei colori naturali, portati a livelli molto saturi di brillantezza e verosimiglianza. Ma quello che dipingevo allora era ancora un mondo guardato da fuori, più che visto e riconsiderato dall’intero. Crescendo, ho avvertito la necessità di togliere il colore, o quantomeno di abbassarlo. Ho sentito che il colore era un modo di pronunciare le forme. La monocromia, in pittura come in fotografia, racconta un percorso mentale della visione, in un processo di allontanamento dall’oggetto reale. In questa direzione narrativa, più grande è la distanza che separa dal modello, più forte è la tensione emotiva interna dell’opera.