06 Dic Franco Marcoaldi sulla pittura di Eliana Petrizzi
Gli oli su tela di Eliana Petrizzi concentrano la loro attenzione sul corpo, e più specificatamente sul corpo femminile. Se alla sua definizione concorrono materiali i più eterogenei, non lo si deve soltanto alla condivisibile convinzione che qualunque chance di una rappresentazione naturalistica della realtà risulta ormai totalmente inane, ma al dissimulato desiderio di catturare qualcosa che oltrepassa l’apparenza dei sensi; alla spasmodica necessità di avventurarsi in quel territorio di confine dove l’essenza stessa del corpo femminile assume le sembianze dell’anima.
James Hillman, riprendendo Jung, ci ricorda come “le donne Anima” siano quelle che intercettano le proiezioni degli uomini e le riflettono. Anima – sostiene l’eterodosso psicoanalista americano – non risponde soltanto alle canoniche idealizzazioni romantiche; può essere anche vistosa, trita, banale, sterile, volgare. […] L’uomo che osserva questi corpi femminili – altrettante misteriose presenze dipinte da una donna – è costretto a confrontarsi con la condizione archetipica di un’Anima immersa in un sopore ninfalico: né addormentata né desta; né autonomamente virginale né fedelmente congiunta. Ma come ci rammenta ancora Hillman, tutto ciò accade sulla base di un altro presupposto, peraltro da verificare: che l’archetipo dell’Anima possa esercitare il suo influsso sulla vita di una donna soltanto attraverso gli uomini e le loro fatue proiezioni (la rappresentazione della fata buona, della strega, della prostituta, della santa). Ed è ben questo, l’intrinseca falsità di tale assunto, che Eliana Petrizzi sovverte con le sue imperturbabili tele. Anche le donne incontrano bambine e prostitute nei loro sogni; anch’esse sono sedotte da donne misteriose e sconosciute. La Santa, Saffo e la Bella Addormentata fanno parte anche del loro scenario interiore. Non ha dunque alcun senso che la medesima immagine interiore venga nel caso del maschio nobilitata e innalzata a desiderio dell’anima, mentre per quanto riguarda la donna (essendo femminilità ed anima la medesima cosa) essa finisca relegata nel regno dell’ombra. Il fatto è che per giungere a questa consapevolezza occorre guardare in faccia ciò che abitualmente incute timore: per l’appunto il corpo. E più precisamente ancora il corpo erotico: oggetto principale della pittura di Petrizzi, esemplare raffigurazione plastica dell’assunto di Michel Leiris che nel suo Miroir de la Tauromachie ci ricorda come l’erotismo sia un’esperienza legata strettamente a quella della vita; non dunque un oggetto di scienza bensì di passione. O, per esprimersi in modo ancora più pregnante, di una contemplazione poetica.
Guardate questi quadri, queste figure femminili che combinano volti fotografici alle Cecil Beaton, manti alla Pontormo, fessure-ferite alla Fontana; in accordo con Bataille essi ci rammentano che l’erotismo è innanzitutto “approvazione della vita fin dentro la morte.” Che siamo esseri frantumati, individui che muoiono isolatamente nel corso di un’avventura inintelligibile, ma perpetuamente nostalgici della perduta totalità. “La messa in opera dell’erotismo” – continua Bataille – “ha come fine quello di cogliere l’essere nel suo intimo, nel punto in cui il cuore viene meno. Il passaggio dallo stato normale a quello del desiderio erotico presuppone in noi la dissoluzione relativa dell’essere, costituito nell’ordine individuale […] La messa in opera dell’erotismo ha come principio la distruzione dell’essere conchiuso che, allo stato normale, all’inizio, era altro, l’individuo partecipe dell’atto”.
A osservare i quadri di Eliana Petrizzi si direbbe che l’artista compia qui un passo ulteriore, sussumendo la peculiarità dell’erotismo contemporaneo e radicalizzando la sua tensione muta e incomunicabile. Petrizzi persegue chiaramente la strada allegorica; quella di un’allegoria assieme disperata ed ironica, mesta ed orgogliosa. […]
Ogni lettura pittorica è ovviamente quanto mai soggettiva. E davvero non ho idea se Eliana Petrizzi si ritroverà (almeno in parte) in quanto sto scrivendo. So invece per certo che queste mie parole nascono da altrettante suggestioni generate dalla visione dei suoi quadri. E a pensarci bene è proprio questo che conta: un pittore può dirsi tale soltanto quando l’incontro con l’occhio che guarda l’opera genera nell’osservatore un campo evocativo che arricchisce, moltiplica o addirittura distorce l’intenzione di chi l’ha creato.