09 Dic Antonello Tolve sulla pittura di Eliana Petrizzi
Delicate e sensuali, viscerali e appassionate, carnose ed erotiche, equilibrate e vibranti, sovrastoriche e (a volte) metafisiche, cristalline, marmoree. Le figure proposte da Eliana Petrizzi mettono in evidenza non solo una particolare modalità compositiva da tableau vivant, ma anche un principio edificante che mostra interesse nei confronti del materiale e, naturalmente, della tecnica trattata. La sua pittura – flessibile ad ogni discorso affrontato – si nutre, a me pare, di forme legislative che affondano le radici in territori di matrice teatrale. Difatti, è proprio una sottile estrazione spettacolare (che si congela in felice scenario pittorico) ad essere – assieme all’incidenza del carattere cromatico – uno dei centri nucleari del suo lavoro in cui la questione della posa si fa ridefinizione compositiva del reale, osservatorio esoterico d’un tragitto all’interno della physis. Dalla pittura alla tecnica mista per giungere, poi, alla fotografia, Eliana Petrizzi formula un’asse grammaticale teso a levigare la realtà tanto da metamorfosare il presente in scenario arcaico, in territorio intangibile e silenzioso, lontano e inaccessibile; un territorio che assapora la vita e i mille significati che la riguardano (Angelo Trimarco), mentre la vita – essa stessa, rilkeianamente parlando – tace.
“Nelle mie figure”, ha suggerito l’artista in una recente dichiarazione “soltanto il viso, sede di ciò che nel corpo non muore mai, resta giovane e perfetto. Tutto il resto (carne, spazio, cose) si decompone in un magma purulento che si trasforma senza sosta, seguendo un ansimare inquieto, il flusso inarginabile e selvatico del sangue e dei venti”. Il viso è, così, stazione eterotopica (in cui ritrovare tutta la perfezione del mondo, Vollkommenheit der Welt) e, parallelamente, territorio di riflessione attraverso il quale mettere lo sgambetto al tempo, alla fragilità e alla caducità del corpo (dell’umano), per circoscrivere le linee del divenire in ambienti assoluti e assolutistici, legati ad una sovratemporalità cromatica che inchioda lo spettatore tra le maglie di una attualità asetticizzata, smarrita, astratta ed autoastraente.
“Il corpo”, racconta ancora Petrizzi (lasciando intravedere una fuga poetica dalle cose della vita e dai dolori del quotidiano), “è dimora inagibile, maceria da cui evacuare. È la sede di una morte che convive con noi in ogni istante e che riconosciamo come inaccettabile estranea. È metafora di tutto ciò che percepiamo come limite e confine: corpo è una condizione emotiva intollerabile, è la vita che non abbiamo scelto, la passione dannosa, l’attracco senza porto delle parole, la primitiva solitudine che ci lega a chi ci vive accanto”. Tuttavia, è da questa Bedingung umana, dal corpo in quanto linfa vitale, che Petrizzi, spiritus phantasticus, sugge una infinità di forme e di immagini legate a rêve de rêves, a veglie e a speranze che, attraversando l’arduo tema del rapporto tra luce, colore e forma, generano una vera e propria peinture théatrale (per dirla con Diderot) violenta e, nel contempo, muta, segreta.