29 Dic Rino Mele sulla pittura di Eliana Petrizzi
Come entrare in un porto. Il colore è il mare, e non c’è attracco, molo, spiaggia. I personaggi del teatro di Eliana Petrizzi sono maschere risuonanti e negate, annegate. Il tentativo di rifondare una metafisica senza oggetti, senza nemmeno il più elementare di essi, il corpo. Il padre ucciso, e rimpianto, è la sua metafisica pittura, messa a morte da un eccesso di realismo confinato ai volti: come se questi aprissero esili finestrine a spiare il disastro, il vuoto. Su quel deserto gonfio di colori (le vesti e la nudità si confondono) il progetto di Petrizzi è l’azzeramento del racconto: “Smetti di raccontare” sembra dire a ognuno dei suoi stremati personaggi, “è sufficiente che tu ci sia, con l’ansia sottratta a una fotografia, la seduzione dello sguardo, il sorriso cucito”. Un mondo senza oggetti, corpi, inciampi, un immenso lago latteo in cui siamo già affondati. Così, Eliana Petrizzi mostra consumato artificio di scrittura ma la comunicazione che davvero sa di volere è mettere ossessivamente ordine nell’infinita teoria dei profili, volti, sorrisi, gli apparenti segnali di un inafferrabile io: uno dopo l’altro sembrano capitelli consumati, vasi straordinari (non significa testa – in latino – vaso ma anche cranio, con Ausonio e, nel medioevo, capo?) reliquie di uno spazio che non restituisce altri reperti. La voce è in agguato. Con l’aiuto dell’asimmetria – la dislessia dello spazio – spera di nascondersi, di nascondere il percorso drammatico della sua pittura: Eliana Petrizzi tenta il sogno della parte come tutto, incastro d’atroce sineddoche, allusione timida, forse estrema, a una condizione di dolore.
Nell’ascoltare il tremendo suono della superficie su cui graffia la sua pittura, la testarda armonia che ne trae, Eliana riscrive il reale cupo e leggero, la chiarità scura del sole. Le sue dita sporche di colore rimandano a segni di una nascita che in lei ogni sua opera ripete e cui vorrebbe sottrarsi. Superficie è lo specchio, l’acqua che lo evoca e su cui il volto di un dio nascosto si riflette. In tutta la storia dell’arte il realismo è il più dolce e seducente, il più necessario e glorioso degli inganni (come recitare a teatro senza trucco, col volto scoperto, facendo a meno delle maschere e dell’anamorfosi della scena): proprio allora, in quell’ebbra certezza, il personaggio scaccia l’attore, lo svuota del corpo, si sostituisce a lui, si veste della sua pelle, fa della sua terrificante condizione quello che Apollo fece con Marsia. Eliana Petrizzi dipinge il vuoto del reale, lo trasforma in un’assordante selva, sente quella vibrazione originaria e l’esalta fin dagli accurati disegni preparatori – la traccia primaverile dei fogli – quel mortale ripetere un volto fino a renderlo, per troppa familiarità, sconosciuto. Lo stupore di mettere gli occhi dove prima era il buio.