06 Gen Dialogo sulla pittura – Un’intervista di Giada Caliendo
Mi sono persa. Come al solito.
Ogni volta che vado alla casa-studio di Eliana Petrizzi sbaglio strada e mi inoltro in campagne sconosciute, ma mi piace. Mi guardo intorno, esploro con lo sguardo e con l’olfatto i nuovi luoghi e mi sembra di comprendere un po’ meglio i dipinti intimisti di Eliana. Qui la solitudine non è abbandono ma pensiero, e i colori sono quelli della terra crudi e veritieri come il freddo che mi avvolge in questo gelido pomeriggio di febbraio. Dopo aver ricevuto nuove istruzioni sulla strada da seguire giungo finalmente a destinazione. Trovo Eliana sorridente come sempre e, dopo la sua naturale accoglienza spumeggiante fatta di domande frenetiche su quale libro io stia leggendo o quale mostra abbia appena visitato e soprattutto dopo un mio “giro di ricognizione” dedicato alla ricerca della sua ultima produzione artistica, mi inoltro nel vivo dell’intervista.
CALIENDO. La tua prima personale risale al 1995 e da allora la tua pittura si è evoluta in una molteplicità di interessi; sempre, però, porgendo attenzione ad un dettato figurale. Un’esperienza sviluppata, tranne qualche eccezione nella quale insorge una materia di natura informale, nei registri di un’analisi che accoglie un dettato intimista che lascia affiorare resti di volti, di corpi, di spazi, quasi sempre declinati alla luce di ingrandimenti che arginano referenzialità percettive. L’individualità, nel tuo percorso creativo, è intesa come solitudine tesa ad allontanare l’esterno oppure è una ricerca di un sé?
PETRIZZI. La mia idea, che vado confermando negli anni, è che la solitudine è una condizione fondamentale. Malgrado le numerose e pur necessarie relazioni che ciascuno costruisce nel tempo, restano parti che devono restare slegate, che vogliono tornare al grembo del benvenuto e dell’addio, dove si è soli per destino, comunque e sempre. È un grembo la nascita ed è un grembo la morte, è un grembo la gioia come il più profondo dolore. Solitudine, quella di cui racconto, dovuta credo al distacco dall’utero materno, che rappresenta solo la prima tra le molte forme di separazione che ci aspettano poi nella vita di ogni giorno. Cercare se stessi è un percorso difficile, al limite dell’impossibile. Mi chiedo sempre: cerco me stessa attraverso la solitudine, o piuttosto trovando me stessa, è la solitudine che in fondo ho trovato? Non l’ho ancora capito e forse nemmeno mi interessa scoprirlo, giacché è proprio da questo dubbio che traggo sangue per il mio lavoro. Per questo, amo pensare alle mie figure e ai miei personaggi come a degli “asceti discendenti”, e cioè a creature che si elevano solo scavando, togliendo, silenziando.
Di certo, il chiasso non mi aiuta. Da sola, coltivo la distanza; la riscaldo, ne sorveglio la crescita che mi riavvicina al fondo delle cose. Tutte le parole che ascolto e che pronuncio da mattina a sera non sono che zavorre. Spesso, guardando cose e persone, mi sembra di osservare una convulsa colonia di microbi. Ma se in solitudine mi fermo a dipingere un quadro, posso vederle dall’alto, e insieme profondamente dal loro interno.
La pittura, intesa non solo come esercizio di una pratica, è quindi la lente d’ ingrandimento con cui vedi il mondo. È l’approccio conoscitivo verso l’altro da sé.
Apprendo molto di più osservando che partecipando. Quando sono dentro le cose faccio rumore, mi perdo in un caleidoscopio di prospettive che mi impediscono di cogliere l’essenza di quelle stesse cose. In solitudine, al contrario, imparo ad amarle, a comprenderle, a desiderarle. Da sola, mi sento come un fiore aperto alle trasmigrazioni degli insetti. Mi integro in tutto ciò che profondamente non sono. Capisco quello che posso comprendere e quello che non mi è dato chiedere. Mi accorgo di come ogni cosa che accade nel momento presente abbia una risonanza profonda in ogni punto dell’Universo, di come tutto ciò che è disperso sia riunito altrove. Anche per amare secondo me è importante aver imparato a stare da soli, e a lungo. Molti, più che amarsi, si stanno accanto nel cratere della vita. Dalla porta lasciata aperta, entra uno spiffero gelido contro cui si corre a chiudere l’uscio. Meglio sarebbe invece uscire fuori, sporgersi oltre l’orizzonte del freddo, per imparare quanto pulita sa essere l’aria e tersi i colori nelle giornate di dicembre più che in quelle d’agosto.
Dittici proposti nei registri di ‘volto-paesaggio’, nei quali lo spazio appare sospeso, ovattato come protetto e schermato da un velo invisibile. La tua creazione artistica si nutre di dettami surreali, di un mondo accattivante che sfiora l’onirico. La dualità, tanto ricorrente nella tua ultima produzione artistica, mi fa pensare a La voce nel silenzio, dipinto da Magritte nel 1928, in cui una parte del quadro è impregnata dal solo e opprimente buio, mentre nell’altra v’è descritto l’interno di una stanza da pranzo. L’artista belga dà quindi vita ad una dualità che inquieta e sobilla la nostra immaginazione. L’inquietudine è forse il filo sottile che intercorre tra la tua percezione di arte e la relazione con l’immagine?
I dittici nascono dalla mia incapacità di dire cose diverse in un’unica immagine. Così ho pensato fosse meglio lasciare alla loro giustapposizione la costruzione del racconto. Spazio interno e spazio esterno: il volto come spazio intimo, il paesaggio come contrappunto in termini di aria, luce e terra a quello che è un ritratto dello spirito. Questo è il senso dei miei dittici, ed ecco anche spiegato un certo tipo di viso e di paesaggio nella mia pittura. Del volto umano non mi interessano l’individuazione sessuale né la bellezza tradizionale. Cerco piuttosto un’identità che si sciolga nel racconto delle proprie avarie; cerco la fibra nuda, quella che resta oltre la povertà delle linee che si disfano, oltre l’usura sbadata dei giorni. Nella stessa misura, i miei paesaggi sono sempre ridotti a pochi elementi, in cui soprattutto l’uomo è assente. Mi infastidiscono i dettagli di ogni tipo. Quello che mi interessa nella pittura di paesaggio è paradossalmente una sorta di figurazione astratta, ottenuta attraverso il risultato iperrealista della tecnica. Più che la presenza, dipingo di fatto la sua sospensione e la sua impossibilità, il silenzio che ne precede la comparsa o che ne segue la perdita. Mi interessa, ad esempio, evocare l’albero mediante il puro colore dell’albero, talvolta senza neppure definirne esattamente la forma. Raccontare il cielo con la tinta pulita che il cielo ha nella luce del crepuscolo, che è quella che prediligo. In merito alla tua considerazione sull’aspetto surreale della mia pittura, l’accetto a pieno. Aggiungerò anzi che il sogno è per me una realtà parallela, e quindi compresente al mio stato di veglia. Sono convinta che viviamo tutti un aspetto minimo della realtà, che percepiamo nei limiti di uno spazio fisico finito e di un tempo lineare. Esiste invece un livello fatto di un tempo circolare, in cui ogni cosa accade ed insieme è già accaduta ed accadrà; che contiene una sacra immanenza del mondo, fatta di cose e persone che credevamo perdute o che ancora non ci appartengono. È, questa, una dimensione ricca di senso, e soprattutto di possibilità. Vi sono contenute la trasformazione di tutto ciò che esiste, il principio di una vita portatrice di intelligenza, meraviglia e persino felicità, oltre il dolore della consapevolezza.
Nella mia veglia quotidiana, mi sforzo di vedere ciò che di solito si vede dormendo. Ecco da dove nascono le mie opere.
Spesso il tuo registro narrativo fonda sulle relazioni che si spingono verso un contrasto polare estremo, per intenderci ricorri ad una tavolozza fondata sul bianco e nero, dando la sensazione di un racconto intimo e sussurrato. Qual è il tuo rapporto con il colore?
Nei primi anni del mio lavoro, impiegavo colori molto accesi e quasi irreali. Col tempo, mi sono accorta di quanto mi stancassero una volta ultimato il quadro. Il colore ha a che fare con una dimensione fisica della percezione, dimensione didascalica, descrittiva e talvolta decorativa del mondo. La mia idea è che le cose siano in fondo riducibili ad una vasta gamma di toni di grigio, che contengono una varietà di significati emotivi molto più profonda di quanto non riescano a realizzare i colori.
La tua figurazione ha, sul piano squisitamente tecnico e formale, un’origine lontana, spazia verso quel dettato alla fedeltà retinica che fu proprio della cultura fiamminga e, in chiave contemporanea, di quel dilato momento che la critica chiama ‘iperrealismo’. Poi, però, acceleri l’attenzione e con minime varianti, direi alterazioni, sposti – come rilevato da Bignardi – l’eccessiva fedeltà alla percezione verso il dubbio, rendendo manifesta l’inquietudine di cui parlavi poc’anzi. Manipoli l’immagine, inventi ferite, tagli, suture (da lessico post-umano), affidandoli alla tecnica del trompe-l’oeil, disarticolando la bellezza, non quella della forma, bensì della pittura stessa. C’è un perché a tutto ciò?
Semplice: nel cammino verso la perfezione occorre fermarsi sempre un passo prima, per evitare di cadere nel baratro del più niente da fare e del più niente da dire, essendo la perfezione per sua natura incorreggibile. Paradossalmente, la ferita sul volto levigato dei miei personaggi è ‘perfezione’. Senza la ferita, infatti, i miei volti non sarebbero che maschere funebri; lisce, fredde, statue immote oltre il tempo, frutti senza nocciolo. Il corpo, di cui il volto è per me il connotato principale, è dimora inagibile, maceria da cui evacuare, pieno a rendere, assegnamento in comodato d’uso a tempo determinato. È la sede di una morte che convive con noi in ogni istante e che riconosciamo come inaccettabile estranea. La vanitas dice invece e con chiarezza: “Tu sei vivo. Traduci in dimora definitiva la tua fragilità, assumila a misura e conferma dell’abitare la vita”. Ogni quadro deve perciò recare con chiarezza lo stigma di questa lacerazione, l’energia della lotta e della difesa, della carne viva che brilla, il guizzo veloce di chi chiude gli occhi e salta per vincere il buio.
In che rapporto metti la consistenza della materia, del legno come supporto che si fa compartecipe o dello spessore della pasta cromatica, con la raffinatezza del disegno che sostiene l’impalcatura della pittura? Dove trae origine la tua pratica, oggi sempre più frequente, di assemblare parti di materialità concreta contrastante con la linearità della tua pittura?
Esiste una mia ricerca pittorica che coltivo da sempre, che tengo a bassa voce e che è forse la mia ricerca più autentica. Si tratta di un linguaggio che vive al di là della vanità in cui inevitabilmente finisce per cadere una pittura d’immagine estremamente tecnica come la mia. Purtroppo non posso evadere dal mio imprinting. Quand’ero bambina, ad ogni compleanno mio padre mi regalava un volume monografico di un grande pittore della Classicità, e io non ho fatto che nutrirmi per anni di quelle immagini così ricche di insegnamenti. I Fiamminghi soprattutto, poi Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Botticelli. Mi esaltava conoscerne la storia e poi studiarne e sperimentarne la tecnica pittorica, poiché già da allora avevo la sensazione, poi confermata nel tempo, che la pittura abbia una sua grammatica, che l’artista deve conoscere a fondo per poter crescere diritto, e per potersene poi liberare, nel caso. L’approccio certosino alla tecnica pittorica è connaturato alle mie mani e non posso separarmene. Ciò nonostante, esistono periodi della mia produzione in cui avverto la fatica fisica della pittura figurativa. Il mio è un lavoro lento, fatto di livelli di pittura a corpo più volte ripetuti con pennelli e sfumini finissimi. Terminata questa prima fase, ne seguono molte di velature che procedono per sovrapposizioni, sottrazioni e nuove sovrapposizioni, in un lavoro che a volte sembra non avere mai approdo. Così, al colmo della stanchezza, seguono giorni in cui ritrovo il piacere di materie più schiette, che ho composto e formulato attentamente nel corso degli anni. Si tratta di composti che uniscono alle basi ad olio della tecnica tradizionale rinascimentale, materiali che ricerco personalmente durante le mie passeggiate in mezzo alla natura, e che hanno per me un alto valore propiziatorio per il buon esito dell’opera. E allora, ecco la cenere dei rami secchi trovata nel bosco di castagni, o quella delle foglie di ulivo bruciate dopo l’ultima domenica delle Palme. Ecco la sabbia portata dal mio viaggio in Venezuela, l’argilla presa con le mani nell’alveo del torrente in Basilicata; la polvere del legno e del colore scartavetrato da un mio quadro defunto. Tutte queste cose danno vita a forme senza forma che, tuttavia, contengono molto più di un’immagine chiaramente definita. Sono tronchi di alberi primordiali, specchi d’acqua, corpi da cui si è appena levata in volo un’anima in cerca di un corpo nuovo, perché la morte è davvero trasformazione e luce. Il quadro si racconta in una trama di segni minimi che devono essere letti osservando l’opera da molto vicino, toccandola persino, in una dimensione sacra, intima e silenziosa. I simboli che vi si incontrano hanno quasi sempre a che fare con l’alfa, con l’omega e con l’infinito, con la perfezione della vita animale e con una concezione della vita umana armoniosa. Anche qui compaiono chiaramente dipinti, i miei visi sono creature piccole e asessuate. Abbandonati i guasti della vita nel corpo, approdano in uno spazio limpido e calmo, con gli occhi spesso chiusi in un rapimento che dice ora l’ignoranza della condizione umana, ora la definitiva saggezza di chi ha molto compreso.
I colori, richiamo alla dimensione fisica della percezione, scompaiono per lasciare campo alle tonalità monocrome e soprattutto al bianco, che le contiene tutte.
Hai deciso di vivere in un piccolo paese di provincia, lontano dalle grandi sollecitazioni culturali proprie delle metropoli contemporanee. Eppure lo spazio che raffiguri è sempre sospeso, ovattato, anonimo ed al tempo stesso universale. Che significato assume lo spazio naturale e quello simbolico delle tue opere?
Ho deciso di vivere in questo piccolo paese per pigrizia, più che per amore, o forse per quella forma di pigrizia di cui molti amori sono fatti. Ad ogni modo, spazio per me vuol dire possibilità di movimento nudo: uscire per strada in certi giorni e non incontrare nessuno, percorrere una strada di campagna per dialogare solo con le pietre e le montagne. Per altri versi, qui soffro i limiti imposti da un contesto geo-culturale senza dubbio rachitico ma, ciò nondimeno, proprio qui ho imparato a conoscermi. Proprio qui, dove sono sola e nulla accade, la mia pittura è maturata insieme al disagio. Disagio di non sapere chi sono, del perché non me ne sono mai andata da questo mucchietto di paesi e vicoli. Qui, la mia vita sociale è prossima allo zero, anche perché a me, in fondo, non piace frequentare gli esseri umani. Raramente mi sorprendono, il più delle volte mi annoiano. L’inquietudine nella mia pittura non ha niente a che fare con il luogo e lo spazio in cui risiedo. I miei sono fossili anteriori che riguardano una più generale condizione dell’essere venuta alla luce. Eppure qui, in completa solitudine, accadono di frequente piccoli episodi di luce che, insieme alla paura di non farcela, mi danno la spinta per un salto ancora. Ogni volta che dipingo un nuovo quadro mi dico: “Non chiuderti. Conserva sempre una mente curiosa ed aperta, un istinto affilato, la capacità di amare l’esistenza con il suo prezioso carico di povertà, varietà e bellezza”. Quando il salto arriva, anche in questo cratere spento, i miei quadri nascono senza sforzo, susseguendosi lievi come pagine sfogliate dal vento.