Umberto – Storie dal confino

Mi alzo forzato a compiere un gesto enorme. Affacciato alla finestra, raccolgo le notizie riportate dallo sguardo: muratori che fischiano, gente lesta con passi da topo; un andirivieni di microbi.
Io e Lina: ogni giorno il ticchettio della sveglia, il chiasso di Canale Cinque, mio figlio che si rivolta nel letto, la vestaglia che cade a terra, lo scarico del bagno, il ronzio del frigo. Questo è il pranzo, questi i panni puliti; qua il conteggio rapace di soldi e proprietà.
Ore 8: Lina va in bagno con la porta aperta. Si piega, si controlla le mutande, si siede sul letto e si taglia le unghie dei piedi. Io la odio, di un odio continuo e pacato. Anche stanotte ho dormito in salotto sul divano, felice di aver lasciato un letto coniugale che da troppi anni è diventato il quartier generale di amplessi fiacchi e gelo.
Ore 13,30: io e Lina mangiamo in fretta, facendo ogni tanto dei piccoli rumori, come se dietro i denti serrassimo una parola che non si può dire. Stupore alla vista del cielo migrante. Immane schieramento di vicoli ciechi.
Ore 17: vado al parco. Mi stendo sulla panchina e aspetto il sonno come un rivolo caldo dietro la nuca.
Ore 19: eseguo carotaggi del mio disgusto. Lina dice che devo farmi degli amici, andare a bere qualcosa. Ma non lo facevo prima, e non lo faccio ora. Il cervello è un faro che illumina senza tregua spiagge dove vado a cercare pace. Sono certo delle parole che pronuncerò e di quelle che ascolterò; ingrato per quanto avrò ricevuto, e che pure tante volte non mi serviva. Di città e persone incontrate non ricordo un solo nome. Chiudo gli occhi e sento la forma dell’universo, mentre fuori passano gli uccelli, le ore, gli altri.
Ore 2: Lina mi tocca prima con le mani, poi con un piede. Mi sale sopra, chiudo gli occhi girando la testa contro il cuscino. Avevo trent’anni e mi vedevo di nascosto con una mia studentessa. Ci incontravamo nel piazzale di una fabbrica. Portava calze a rete colorate e gonne striminzite. Non c’era mai tempo. Sembrava un’invasata: stralunava gli occhi all’indietro, io mi spaventavo, e come al solito non venivo. Tremito del doppio ventre di Lina; sudore tra i seni e la pancia. Sotto di me, la sua carne ha un fremito come quello di una suicida che ha appena toccato l’asfalto. Lina sopra di me va su e giù lenta, pesante. Nelle sue viscere lavorano secrezioni, risucchi e piccoli assestamenti. La guardo e non la riconosco. Ricordo perché ho scelto questa donna: tinte neutre, non un gioiello, non un filo di trucco, nessun segno particolare. Aveva il fascino di case senza intonaco, di binari spenti, di strade sterrate.
Mi addormento. Verso le 4 sogno di morire. Seduto da qualche parte con mia madre, mi accorgo di avere un uccello viola attaccato alla schiena. Poi, io e Lina passeggiamo lungo una strada al sole. Corro nudo e felice, agitando le braccia in alto. Lina mi chiama, ma io non posso tornare indietro. Ho un corpo trasparente e lunghissimo, attraversato dal maestrale.
In lontananza, montagne di pietra e terra salgono come ostie.

Racconto tratto dal mio libro La vita spiata, Magenes editoriale, 2015.

Condividi