L’estate

Scrivo dell’estate, della frenata lunga del tempo che inizia a marzo con l’emozione inaugurale dei germogli. Poi arrivano i piedi scalzi sui pavimenti, l’odore dell’asfalto e del vento tra i muri delle case aperte, il profumo dell’erba tagliata al mattino ed arsa al tramonto.
Di sera, gli spari di una festa svegliano la colomba che mi dorme accanto; ne vedo il profilo disegnato in controluce dalla luna, il suo corpo raccolto respira sollevandosi appena come una nuvola sul mare. La bella stagione è nelle ore lunghe, negli appuntamenti che si rinviano, in certi abiti che fanno le donne nude senza essere svestite. Dal balcone di mia madre si vede la parte vecchia del paese, col viale di ciottoli che era un tempo l’alveo del fiume. Conto le finestre aperte delle case, con lampade sfiorate da una figura che non si affretta.


Mezzogiorno: l’incenso di una frittata, il flauto delle tortore. La certezza è di essere perfettamente felice, senza sapere perché e senza volerlo scoprire. Immobili il cardo e l’orbita vuota della finestra. Lì un grigio di strade, l’aria calda che brilla sui tetti, il silenzio disperato dei frutti maturi, una luce delicata che procede di vuoto in vuoto.
Una figura che passa non mi guarda, ma ha negli occhi una pace che è più di un saluto.
Il colore del mare dietro pini ed eucalipti è di un turchese carnoso, che a tuffarti lo immagini denso come la polpa di un frutto.


Trascendenza orizzontale vuol dire cercare l’altezza intorno, raccogliendo le cose offerte dal cammino.
Anche oggi troverò ciò che serve, e se qualcosa mancherà ringrazierò per le importanti lezioni del poco.
Perdo la forma e il nome, la coscienza di essere e la speranza di diventare. I giorni sprecano le ore ma io, a guardare il sole sul mare, ringrazio per questo sperpero che cura. Case chiare, desolazioni tonificanti, le campane della chiesa, la banda lungo i vicoli paese, vapori di pasta frolla dal bar in piazza, la grazia salvifica di un saluto gentile.
Le strade si svuotano, chiudono i negozi; scende sul paesaggio un silenzio che prepara nomi nuovi per le cose. Mi stendo sul letto e respiro regolarmente, pensando all’avvicendarsi dei giorni come ad un calmo movimento di nuvole.
L’ora più bella per passeggiare è al tramonto, quando il sole inclina un raggio radente che trasforma le strade in torrenti di luce, su cui passano solo lunghissime ombre. C’è in quest’ora qualcosa di struggente: si prepara un silenzio che dice: “Ancora e mai più”.


I ragazzini a giocare nei cortili, e le madri come lupe sui balconi a controllarli, mentre loro da basso strillano, corrono, si urtano e si maledicono senza criterio. Il paese gli appartiene e la loro gioia è furibonda; se fanno un danno nemmeno chiedono scusa. Ognuno tra gli adulti nasconde bene una pena che non dice. A loro invece, la cosa peggiore che può capitare nella vita è quando il pallone finisce oltre un cancello dall’altra parte della via, e i proprietari sono in vacanza.
A quest’ora il caldo forte è passato, la sera si avvicina fresca e luminosa.
Davanti al circolo l’elettricista, il meccanico e il calzolaio siedono a fissare la strada vuota. Ad un certo punto l’elettricista dice che a lui piacciono di più le sere come questa, quando non c’è chiasso, né rumori né gente che va avanti e indietro. Che poi, aggiunge il meccanico, a che serve andare mille volte avanti e indietro? La strada è così corta che se giri la testa una volta a destra e una sinistra il giro è finito, e un giro qui basta e avanza.

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