Piccolo taccuino orientale

 

Negli ultimi vent’ anni ho viaggiato per scelta nei Paesi più poveri del pianeta. Prima di partire, mia madre diceva sempre: “Ma perché non vai a visitare chi sta meglio di te?” Perché i Paesi che stanno meglio di noi sono pochi; il mondo è fatto in gran parte di natura inabitata, e da Continenti che versano in condizioni di disumanità e miseria inconcepibili. Al ritorno da ognuno di questi viaggi, una sola cosa ho però sempre capito: le ragioni della Storia sono immutate da millenni, e la strada per iniziare a cambiare un poco le cose parte sempre e solo da noi. Nessuna rivoluzione collettiva funzionerà, nessun miracolo salverà miliardi di persone. Onestà, gentilezza, coerenza e cura: ciascuno può imparare ad ascoltare, a porgere un aiuto, a non giudicare, a non sprecare, a donare. Sono queste la sola fede e la sola politica in cui oggi vale la pena credere. Non mi perderò in una mistica della povertà, ma di certo posso dire che ogni giorno, in ogni luogo e nelle condizioni più estreme, nei luoghi visitati ho sempre incontrato grazia, pacatezza d’animo, educazione e pudore; nessuna diffidenza, furberia o prevaricazione, delicatezza per le cose, fiducia in tutto ciò che non si può né fare né sapere. Considerando che nessun progresso ha mai risolto granché dei problemi dell’esistenza, preferisco stare dalla parte di questa gente, per cui non esiste cammino più grande dei propri passi, e niente che travalichi la curva del giorno, con letizia per ciò che si è avuto, e nessun rancore per ciò che è mancato.

Per capire la violenza, la bellezza e l’indifferenza della vita, bisogna andare in un mercato del sud-est asiatico; a Phnom Phen, per esempio, nel tanfo rancido di pollame macellato, al caldo delle botteghe, tra sputi, fango e fogne.
I dolci da offrire nelle pagode, l’oro finto per le onorificenze, motori di vecchi camion, incenso e seta. Un uomo chiede soldi col brandello di carne che gli è rimasto al posto del braccio. Una ragazza incinta dorme coperta di immondizia. Giovani puttane e vecchi turisti soli al pascolo. Macerie, e case che si costruiscono nel giro di una notte. Panni stesi ad asciugare sopra le viscere calde dei porci. Bambini nudi giocano nella feccia, felici come bambini. Alla fine, però, come sempre nella vita si ricordano solo i colori, pochi volti, e tutti i profumi.

I miei piedi vanno scalzi sulle pietre e nel terreno: neanche cento metri e già si lamentano, ma non bisogna fermarsi: è giusto che ricordino cos’erano una volta i piedi. Sulle strade corrono motocicli di fortuna e carri trainati dai buoi.
La venditrice di frittelle al mercato di Phyu mi saluta gentilmente e abbassa lo sguardo, aspettando che sia io a desiderare.
I templi di Bagan somigliano alle piramidi egizie: tanto splendore per contenere cosa? A dimostrazione che alla lunga solo le cose inutili la spuntano.
Ad Amarapura, un pittore sul ponte dipinge gouache per i turisti. “Banale”, dice uno alle mie spalle. Nei dipinti si vedono un fiume, un albero, una casa, un ponte, una figura che va o che torna: mi chiedo in cos’altro consiste la vita.
Stormo di uccelli su Mingun, in volo come un nastro sciolto.
Mandalay: città brutta e chiassosa, che dopo le due del mattino ritrova il silenzio dei villaggi, interrotto solo da un grillo o da un gufo. Trasportatori di riso bevono il tè seduti in acqua tra le piante del fiume. Quando mi vedono passare sorridono, schernendosi come bambine.


L’avorio fine delle ore, una parola onesta del suo splendore insignificante. Mi viene uno stupore continuo per cose che non conosco, a ricordare che i momenti più pieni sono sempre quelli vuoti di me. In una capanna che dalle mie parti sarebbe un rifugio di struggente miseria, ritrovo il senso della casa. Io qui sono il punto in cui l’orologio fermo segna l’ora esatta. Avere la pazienza dell’acqua che aspetta per giorni nei pozzi. Cerco l’uomo, che trovo solo cambiando aria, tra i miei capelli spostati dal vento.

 

Foto: Eliana Petrizzi

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