‘Perché nel mio lavoro persiste una memoria classica così forte? Perché il Classico aveva saputo mettere a punto una rigorosa grammatica della tecnica, insieme ad una visione del mondo profondamente simbolica e trascendente.
Nei miei quadri il volto si astrae dal corpo, a ricordare una parte spirituale inattaccabile dalla mediocrità e dall’abbandono, pur recando con chiarezza il segno di una ferita. La vanitas dell’immagine, la rottura, la mancanza, si fanno metafora della condizione umana, insegnando che solo dall’inciampo è possibile immaginare una forma di riscatto e di elevazione. È in questo preciso momento che il volto di un artista riesce a diventare il volto di tutti, lo specchio in cui non la sua anima, ma l’anima del mondo si fa chiara, e finalmente si riflette.
Il paesaggio naturale, fermato in una luce che è insieme quella dell’alba e della sera, suggerisce di accettare e amare la metamorfosi, la fragilità e tutte le nostre avarie.
Una ricerca di sfocatura e scioglimento è il mio obiettivo da anni. È in fondo questo, per me, lo scopo della pittura: mostrare la realtà, truccandone al tempo stesso la sparizione. Nella diluizione estrema dei contorni, mi accorgo che la vita non ama premiare il rigore, l’ordine, la perfezione, la pulizia. Vita è invece imperfezione, casualità, violenza, calore: struggente bellezza.
La mia è di fatto una pittura che dell’immagine insegue la nostalgia, lontana dalla compiutezza, che sento come lo stadio della forma più prossimo alla morte. Cerco di raccontare un percorso mentale della visione, in un processo di allontanamento dall’oggetto reale. In questa direzione narrativa, più grande è la distanza che separa dal modello, più forte è la tensione emotiva interna dell’opera.
Ogni mio quadro non racconta altro che l’irrimediabile, la trasformazione, la verità impossibile, la vita portatrice di eudaimonia e stupore, oltre i dolori della consapevolezza.’

(Eliana Petrizzi)

Foto: Massimo Teti

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