Le forme sono simboli di una dimensione profonda e trascendente. Più che smaterializzare la realtà visibile, occorre quindi portare in essa ciò che appartiene al dominio dello Spirito.

In tutta la storia dell’arte, il realismo è sempre stato il più seducente e il più necessario degli inganni; un recitare a teatro senza trucco, a volto scoperto, facendo a meno delle maschere. Ma così come il personaggio scaccia l’attore sostituendosi ad esso, il pittore non dipinge che il vuoto del reale, ripetendo un volto fino a renderlo, per troppa familiarità, estraneo. È in questo preciso momento che il volto dell’uomo riesce a diventare il volto di tutti, lo specchio in cui non la sua anima, ma l’anima del mondo si fa chiara, e finalmente si riflette.

Nei miei quadri il volto si astrae dal corpo, a ricordare una parte spirituale inattaccabile dalle avarie e dagli abbandoni. All’improvviso, però, ecco aprirsi lo spazio di una ferita, vanitas dell’immagine, rottura, mancanza, che si fa metafora della condizione umana, carente e precaria. Solo la ferita o la sua memoria mi insegna che sempre dall’inciampo è possibile immaginare una forma di riscatto e di sublimazione.

Il corpo è dimora inagibile, sede di una paura che convive con noi in ogni istante, metafora del limite e del confine. Abbandonato il corpo, i volti galleggiano in uno spazio limpido e calmo, con gli occhi chiusi e le labbra cancellate, in un rapimento che racconta l’ignoranza della condizione umana. Il paesaggio naturale che spesso li affianca, fermato in una luce che è insieme quella dell’alba e quella della sera, suggerisce di accettare e amare la nostra fragilità. Il quadro si racconta in un percorso di simbologie spirituali: l’irrimediabile, la trasformazione di ciò che esiste, il principio della vita portatrice di meraviglia e felicità, oltre i dolori della consapevolezza.

Una costante ricerca di sfocatura e scioglimento è il mio obiettivo da anni. Inseguo di fatto una figurazione che contenga uno spaesamento impercettibile, una parola intraducibile. La pittura deve mostrare la realtà, truccandone al tempo stesso la sparizione: in questo è la sua seduzione più grande. Dietro ogni immagine, di fatto qualcosa si perde sempre nell’atto in cui viene fermata. La mia è in fondo una pittura che dell’immagine insegue la nostalgia; lontano dalla compiutezza, che avverto come lo stadio della forma più prossimo alla morte. Cerco di raccontare un percorso mentale della visione, in un processo di allontanamento dall’oggetto reale. In questa direzione narrativa, più grande è la distanza che separa dal modello, più forte è la tensione emotiva interna dell’opera.
E ben venga talvolta il dolore, perché solo dopo la devastazione le giornate sanno riempirsi di un vento che trasforma con gioia la forma dei cieli, lo sguardo degli animali, le chiome degli alberi, le mani degli uomini.
(Eliana Petrizzi)

Foto: Massimo Teti

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